(questo lavoro è nato nelle ultime settimane da incontri e dialoghi tra i membri della equipe missionaria del centro diocesano. Alcune idee espresse sono ormai diffuse e consapevolezza comune. Il valore di questa lettera per noi risiede nel fatto che nasce da un percorso fortemente discusso e condiviso che ci ha portato ad una interpretazione della pandemia e degli eventi connessi, non più implicita ed individuale ma espressa e comunitaria).

Versione breve presentata all’Assemblea diocesana il 5 giugno 2020
“Ciao Equipe del CMD,
rileggendola, questa lettera aperta mi ha dato una consapevolezza nuova sulla profondità della riflessione fatta insieme…Alcune cose non le ricordavo e trovarle scritte mi aiuta a riflettere ulteriormente perché non rimangano solo parole. Penso che ritornare a questa riflessione e mantenerla viva sia importante.”
Vedere – Toccati nella carne come Giobbe
Questa pandemia giunge in un tempo già segnato da profondi squilibri nel creato e tra gli esseri umani.Il problema è che questo nemico è invisibile e chiunque intorno potrebbe esserne inconsapevole veicolo.
Il COVID-19 ci sembra stia agendo da spartiacque. C’è un prima, una vita dove, per così dire, ci sentivamo al sicuro da eventi traumatici che avvenivano, per noi che li ascoltavamo, solo in contesti circoscritti e che coinvolgevano gruppi di persone a noi lontani: guerre, fame, migrazioni forzate, terremoti, epidemie, disastri metereologici, a meno di non esserne coinvolti, ci vedevano più che altro spettatori a volte distratti e smemorati.
C’è un durante di questa pandemia: lo chiameremo shock-down. Corrisponde al tempo di isolamento forzato accompagnato dal preoccupante aggravarsi delle immagini e notizie con i numeri di infettati, malati e morti. Non sempre le informazioni che veicolavano erano chiare, né hanno sempre contribuito ad una corretta interpretazione sulla malattia, generando anche confusione e angoscia che perdureranno oltre questa fase acuta, determinando comportamenti tra loro opposti: chi nega addirittura che sia in corso una pandemia, e chi invece ne rimane ossessionato impedendogli di riprendere la vita sociale.
Arriviamo al presente, un dopo che viviamo già ma di cui non vediamo ancora chiaramente quale sarà lo sviluppo, tanto come singoli quanto come parte di una società. Una parola che potrebbe indicare la nostra visione antropologica di questo periodo è “disorientati” oppure “smarriti”. Pur possedendo ideali, desideri e speranze, non riusciamo a vedere come e se siano realizzabili.
Perché siamo così tanto impreparati di fronte alla emergenza COVID-19?
Certamente sono accadimenti inediti, ma di cui potevamo attenderci l’eventualità: “Pensavamo di rimanere sempre sani in un mondo malato” (papa Francesco, 27 marzo 2020).
La difficoltà al presente pensiamo abbia a che fare anche con la rimozione di ciò che è proprio della nostra vita: la finitezza.La nostra cultura ha cancellato le cose che disturbano, a partire dall’esclusione della morte, che pur nel dolore della perdita di persone care, dovrebbe comunque avere il senso pasquale di passaggio, per i credenti, e comunque dono di significato alla nostra vita anche per chi credente non è.
Posti al centro di una tempesta, alcune abitudini che consideravamo nostre certezze si sono sgretolate, i progetti a lungo termine messi in discussione. La cosa più difficile da fare è stata fermarci e finalmente guardarci dentro, porre a noi stessi le domande sempre rimandate sul nostro stile di vita.
Vediamo persone che stanno soffrendo molto. A motivo dei vari impegni che ciascuno di noi svolge, ci accorgiamo che in diversi ambiti chi era in difficoltà prima, ora lo è ancora di più! I senza fissa dimora, costretti in lock-down non umanamente facili e sopportabili; le lavoratrici ed i lavoratori a casa, nel dubbio se potranno riprendere il lavoro; i carcerati che subito hanno manifestato il disagio e la paura, senza dimenticare il servizio di sorveglianza degli istituti di detenzione; i malati, gli anziani, le persone diversamente abili, i malati psichici, chi subiva violenze in famiglia ora ancora più a rischio.
C’è inoltre una perdita di fiducia. Si cercano colpevoli, e di questo anche Dio può essere un bersaglio.
Abbiamo anche la sensazione che la gente non stia veramente riflettendo, non stia cercando di capire, stia aspettando di ripartire e basta. Ma è una prospettiva realistica? Pensiamo che soluzioni ragionate a tavolino non siano adeguate al carico di umana sofferenza che le persone hanno patito.
Eppure dobbiamo sottolineare anche aspetti positivi: la risposta alla richiesta di aiuti alimentari per le crescenti famiglie in difficoltà; l’accorgersi che il proprio comportamento influisce sulla vita altrui, per cui si sceglie responsabilmente di seguire tutte le norme igieniche
Siamo diventati più poveri a causa del minore contatto umano. Un digiuno come questo fa male “Non dimentichiamo quanto la perdita di contatto umano in questo periodo ci abbia profondamente impoverito, quando siamo stati separati dai vicini, dagli amici, dai colleghi di lavoro e soprattutto dalla famiglia, inclusa l’assoluta crudeltà di non poter accompagnare i morenti negli ultimi istanti di vita e di piangerli poi adeguatamente.” (papa Francesco). Non ci è stato possibile elaborare il lutto.
Più che preoccuparsi di fare, sarà importante ora avviare processi. Non sappiamo come ne usciremo, chi avrà ancora un lavoro, quanto ci accompagneranno tutte le norme di distanziamento. Il foglio bianco è molto largo. Meno prevedibile di quanto pensiamo. Conviene concentrarsi sul presente. Lo sguardo sul futuro resta, ma il domani è il frutto delle scelte di oggi.
Valutare – in cammino come i discepoli di Emmaus
Questa situazione non è facile da valutare, e solleva in noi diversi interrogativi.
Cosa possiamo fare per cambiare il nostro stile di vita? Quali criteri evangelici possono aiutarci?
Non è che rischiamo di guardare solo alla vita altrui senza mettere in discussione la nostra?
Non è che ci illudiamo che questa situazione ci cambi senza una nostra attiva consapevolezza ed azione?
Che cosa dovremmo effettivamente mantenere di quanto era il mondo prima della pandemia? Quali delle nostre attività era davvero necessaria?
Le domande che ci poniamo hanno bisogno non di risposte tecnicamente esatte e preconfezionate, ma di proposte luminose. Nel silenzio del lockdown sono maturati anche nuovi pensieri. Il futuro richiede una novità, è un orizzonte inedito sul quale agire .
Chiaramente è un tempo di riflessione per tutti: sono cresciute l’attenzione alla ecologia e la coscienza che questione ecologica e sociale sono connesse. Da tanti anni ormai il nostro sistema capitalistico, nella sua forma ipertecnologica si configura sempre più come sistema economico assassinoche colpisce in egual maniera la biosfera terrestre e l’umanità nelle sue relazioni di giustizia ed equità.
Interrogarci sul senso della propria vita alla luce della malattiae della morte ha significato comprendere di nuovo le dimensioni che ci sono proprie: siamo piccoli, deboli, indifesi ed è la nostra umanità che fa riaffiorare in noi il desiderio e la necessità di cercare una condivisione e comunione migliore con le altre persone, a partire dal dolore e dal piangere i nostri morti. Diamo tempo a queste relazioni e iniziamo così a cercare dal basso soluzioni che possano essere condivise
È importante perciò non ripiegarsi su sé stessi, nella difficoltà del sentirsi inadeguati al momento presente o illudendosi nell’attesa che, prima o poi, quello che abbiamo perso ritornerà come prima. Non sono pochi i casi in cui riscoprire le dimensioni della vita domestica e familiareha permesso di riscoprire anche il peso benefico che la prossimità ha nel nostro vivere e affrontare le difficoltà.
Bisogna tuttavia fare molta attenzione: riusciamo a manifestare il meglio di noi stessi, ma anche indurire il nostro cuore tirando fuori il peggio. La nostra stessa fede è stata messa alla prova, interpellandoci sul rapporto che abbiamo con Dio. Nonostante la moltiplicazione via web di svariate forme di preghiera e della celebrazione eucaristica, si evidenzia anche una certa piattezza nella vita spirituale di tanti cattolici che finisce per pesare sulle nostre celebrazioni. Sarebbe bene avviare un processo di crescita sul valore comunitario della preghiera, dell’ascolto della Parola di Dio, dell’esercizio della carità evangelica, di tutto ciò che potrebbe arricchire l’Eucaristia che costruisce la comunità. Ci torna in mente la frase di don Tonino Bello che ricorda il valore missionario della partecipazione eucaristica: “La pace è finita, andate a messa!”.
Riteniamo anche il ministero di papa Francesco oggi richieda un’attenzione maggiore per aiutarci a scegliere come muoverci in una prospettiva non limitata né a breve respiro. Permettere che il cuore delle persone sia toccato dal Signore non è questione di quantità di impegni e manifestazioni ma di qualità umana dei fedeli e delle relazioni vicendevoli improntate alla misericordia e perdono.
Agire – chi rimane in me ed io in lui porta molto frutto
Cosa posso fare, io, per migliorare la situazione dei miei fratelli che soffrono in tutto il mondo?
Innanzitutto vogliamo pregare il Padre, Signore della vita, per illuminare i nostri volti, metterci in ascoltodelle persone che incontriamo, e, come la Chiesa degli Atti degli Apostoli, procedere con idee e progetti, ma pronti acambiare passo e stile se la storia lo richiede. Lasciarsi condurre dallo Spirito, insomma, e poiché c’è una relazione con Gesù il Risorto, camminare nella vita come cristiani. Avere la Pasqua come chiave di lettura. Se questo Covid-19 rappresentasse i giorni della passione di Gesù, poi dovremmo uscirne pieni di vita, come nel giorno di Pasqua. E questa vita va condivisa, donata a tutti. Il tempo di isolamento, con le sue preghiere ed eucaristie vissute a distanza, via web, ci pone nella condizione di voler verificare come celebriamo il mistero della vita di Dio donata per la nostra vita, rito collegato all’ultima cena e alla lavanda dei piedi.
Il primo desiderio di vita è quello di rimetterci in movimento. Credere di non essere in grado di fare molto, non può divenire l’alibi per non fare nulla. I problemi ora presenti sono innumerevoli, e ci sentiamo sospinti ad una conversione culturale. I vecchi schemi e risposte non sono sufficienti, «Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio; altrimenti il nuovo lo strappa e al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo» (Lc 5, 36). Primo impegno è confrontarci e condividere idee per il futuro. Quando parliamo di nuova cultura, chiediamo che essa possa integrare il dialogo, la misericordia, l’attenzione alla casa comune, cioè al creato e alla umanità. La prospettiva sarà quella di un nuovo modello di sviluppo e dei nuovi stili di vita. Non potrà esserci allora conversione culturale che non venga accompagnata da una conversione personale.
Lo stile di vita ha nel sentirsi responsabili dell’altrola sua fonte di luce. Il bene dell’altro ed il mio bene non sono in competizione, io e l’altro siamo elementi di un vasto insieme di vasi comunicanti. Noi esistiamo insieme agli altri, io e l’altro siamo responsabili vicendevolmente. Sentiamo allora il desiderio ed il bisogno di sentirci in comunione con le persone. Nasce la voglia di essere prossimo nella nostra comunità.
Il desiderio di comunità, è un segno a cui dare continuità. Comunità inclusive e capaci di generare al mondo donne e uomini capaci di amare Dio e il prossimo: in questo modo essere missionari.
Essere portatori sani di altruismo e serenità, pensando a progetti concreti di aiutoper chi si trova in difficoltà sia spirituali sia economiche, contribuire a creare un clima di serenità sociale e non catastrofico, evitando di fomentare divisioni e polemiche. Non far morire la speranza richiede capacità profetica di porre segni, di offrire testimonianze autentiche e vive della gioia che ci alimenta. La speranza la tengono viva le persone, la speranza sono le persone!
L’auspicio è che, magari pian piano, chi pensa di non farsi toccare da questa situazione, un giorno comincerà a guardarsi dentro. Intanto chi sta aprendo gli occhi e il cuore cominci!
Ci sono stati, ci sono e ci saranno sempre “pandemie” che ci metteranno in discussione, che ci chiederanno qualcosa, miglioramenti e cambiamenti, che tireranno fuori le nostre qualità, responsabilità, difetti, fragilità…Saranno per noi come uno specchio. Sta a noi accogliere e affrontare queste pandemie.
Dobbiamo avere cura di questo periodo/esperienza. Dobbiamo custodirloper non rendere vano tutto quello che sta succedendo nel bene e nel male.
Queste situazioni mettono persone già in difficoltà ancora più in difficoltà, non dobbiamo perderlee farle arrendere, così come dobbiamo convertire noi stessi e magari recuperare anche chi mostra disinteresse, cinismo e superficialità.
Rimanere come siamo sarebbe un fallimento: “peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi.”Equìpe del Centro Missionario Diocesano di Bologna
esiste la versione estesa della lettera